Giobbe C’era una volta, tanto tempo fa, in una terra lontana, un uomo nel contempo insolitamente semplice e insolitamente complesso, il quale è sia l’eroe sia la vittima di una storia le cui ripercussioni si sono avvertite per secoli. Il suo nome è GIOBBE, in ebraico IYOV che significa: “dov’è il padre”.

La storia di Giobbe è apparentemente un pò scontata. I personaggi che vi compaiono sono spesso incomprensibili. La conclusione della storia ci lascia insoddisfatti. Dopo aver finito di leggere il libro, restiamo con il sapore di un lieto fine di cui non si comprende la dinamica.

Di cosa parla questo libro? Del dolore? Della fede? Della ribellione? Della giustizia?

Queste domande non hanno mai ricevuto riposta univoca. Giobbe si sposta in uno spazio compreso tra la ribellione totale e la sottomissione incondizionata.

Giobbe è e resterà sempre un inesauribile fonte di sorprese. Rabbi ‘Aquiba raccontò la storia del Diluvio e non accadde nulla; poi insegnò la storia di Giobbe e cominciò a piangere, e con lui il suo pubblico.

Secondo tutti i commentari talmudici, Giobbe non era ebreo. Eppure questo libro ha segnato profondamente la tradizione ebraica. Il Sommo Sacerdote la sera di Yom Kippur leggeva il libro di Giobbe. Le leggi del lutto della tradizione ebraica derivano tutte da Giobbe.

Jung, Kierkegaard, Kafka e Voltaire sono solo alcuni uomini che hanno affrontato la storia di Giobbe. Oggi saremo noi a fare visita a questa vecchia conoscenza di nome Giobbe.

LA STORIA DI GIOBBE

“C’era un uomo nella terra di Uz e il suo nome era Giobbe”. Uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno al male  (Gb 1,1).

Questo inizio racchiude più domande imbarazzanti che risposte rassicuranti.

Il paese di Uz nessuno sà dove si trovi. Del protagonista conosciamo solo il nome, solitamente la Bibbia presenta i suoi protagonisti indicando anche il nome del padre. Non qui. Il testo è così intento a descrivere le qualità del protagonista che si dimentica di citarne la biografia.

Giobbe aveva sette figli e tre figlie. Possedeva una grande ricchezza. Il testo, nel prologo, racconta delle feste dei figli e degli olacausti che Giobbe offriva nel dubbio che questi avessero peccato.

Forse Giobbe non è il buon padre che molti pensano. Dei suoi figli la Bibbia non riporta neanche i nomi, non sono degni di nota. La loro caratteristica principale è che andavano sempre ai banchetti. Aprivano mai un libro? Studiavano? Se si, non si fa menzione dei loro risultati. Che il loro comportamento non fosse dei migliori si evince dalla storia stessa. Giobbe, ci viene detto, portava offerte a Dio perché aveva paura: sospettava che i suoi figli avessero peccato e offeso Dio nel loro cuore. Ma, se era sospettoso, perché non cercava di porre rimedio alla situazione? Perché non parlava loro? Perché non li educava? Perché era cosi indulgente, così gentile così acritico nei loro confronti?

Che fosse talmente intento a badare alle sue proprietà da trascurare l’educazione dei figli? Cosa facevano loro? Si divertivano, tanto che Giobbe aveva paura. Paura di cosa? Probabilmente di essere punito.

In altre parole il testo ci avverte di non commettere l’errore di considerare Giobbe un uomo veramente giusto. Come scrive il premio nobel Elie Wiesel“Giobbe è solo l’ennesimo essere umano complesso che, come tutti noi, è capace di grandezza e di autoinganno, oscillando perennemente tra l’angoscia totale e la speranza ultima, tra la ricerca tragica e la tragica verità.”

La storia continua e la sequenza successiva ci conduce fino in cielo, dove assistiamo a uno strano dialogo tra Dio e Satana: in superficie il dialogo è banale, sconclusionato quasi pettegolo. Dio elogia Giobbe e in qualche modo costringe Satana a opporsi a Lui. E’ questa l’impressione che si ricava dal testo: i complimenti di Dio mirano a provocare le critiche di Satana. Il che riporterebbe l’intera faccenda nelle mani di Dio e non di Satana. Difatti chi dà l’avvio alla vicenda? Satana? No Dio. E’ Dio a iniziare il dialogo. Satana si limita a rispondergli. Satana è strumento. Giobbe non saprà mai nulla della scommessa di Dio. Perché? La lite di Giobbe è sempre con Dio mai con Satana. Egli non scopre mai l’intera verità. Giobbe vivrà, sopravviverà, si pentirà e morirà senza mai conoscere tutta la verità della propria storia. Forse la motivazione è che la scommessa iniziale non è poi cosi centrale nella dinamica del libro.

Comunque torniamo alla nostra storia. Improvvisamente la vita familiare tranquilla e serena di Giobbe va in frantumi. Un messaggero arriva portando cattive notizie; ha a malapena finito che ne arriva un altro con notizie ancora peggiori; e poi un terzo, con notizie di gran lunga peggiori. Distruzione, catastrofe, morte e omicidio: ogni volta il messaggero di turno conclude il suo resoconto dicendo: “sono scampato io solo che ti racconto questo”.

Successivamente Giobbe si ritira in se stesso, scavando nella propria memoria angustiata. E i tre amici che vengono a fargli visita rimangono a una certa distanza. Dapprima guardando a lungo. Poi, ascoltano. E’ questa la legge: spetta alla persona colpita dal lutto di prendere l’iniziativa; spetta a lei la decisione di quando parlare.

Il silenzio di Giobbe è nel contempo una risposta e una sfida. Per sette giorni e sette notti rimane in silenzio: il suo dolore è talmente grande che nessuna parola può esprimerlo o contenerlo.

Giobbe perse sette figli, tre figlie. Perse la sua posizione sociale. E le sue illusioni sulla vita e sulla giustizia.

Scende il silenzio. Dopo sette giorni, i suoi cosidetti amici iniziarono il loro assalto verbale. Povero Giobbe, lui soffriva e loro procedevano a spiegargli la sua sofferenza.

I PERSONAGGI DEL LIBRO DI GIOBBE E I DIALOGHI

Due personaggi della storia compaiono all’inizio per scomparire di scena quasi subito. Il primo è Satana che dopo aver parlato con Dio, e dopo aver assestato la serie prevista di colpi a Giobbe, si ritira dalla scena per non riemergere più. Il secondo personaggio è la moglie. Secondo alcune traduzioni Lei dice al marito: “maledici Dio e muori”  (Gb 2,9). Gli augura la morte per porre fine alle sue sofferenze (lei risolve così un problema ancora oggi molto attuale). Ricettiva, coraggiosa, volitiva, la moglie di Giobbe parla sinceramente: sa che l’uomo non potrà mai sconfiggere Dio, nemmeno nella disputa teologica. Il suo scopo è di risparmiare al marito ulteriore sofferenze. Però in effetti lei usa questa parola: ‘bareckh’, letteralmente “benedici” e non “maledici”, quindi in effetti lei dice: “Benedici Dio e muori”, in altre parole: Muori benedicendo Dio. La risposta di Giobbe è brutale. Lui si rivolge aspramente a lei e le dice: “come parlerebbe una stolta tu hai parlato!” dice ancora: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (Gb2, 10).

Ma in fondo tutto ciò che capita a Giobbe capita anche a lei. Non appartengono allo stesso nucleo familiare? Non sono uniti da un matrimonio? Quando Giobbe perde la sua ricchezza, non né è anche lei privata? A morire non sono anche i suoi figli? Il tormento inflitto a Giobbe non li colpisce entrambi? Egli è troppo duro con la moglie. Non mostra rispetto per i suoi sentimenti, per il suo dolore. Lei è ferita e offesa, si ritira dalla scena sino a quando nell’ultima frase viene ordinato a marito e moglie di riconciliarsi e di ricostruirsi una casa.

Poi fanno la loro comparsa i cosiddetti ‘amici’ di Giobbe. Chi li ha invitati? Che cosa li motiva? Chi sono? Fingono di parlare a nome di Dio, ma in realtà parlano contro di Lui; forse pensano di essere amici di Dio, di essere i Suoi difensori. Sono amici di Satana. Lo tormentano, lo torturano.

E’ incredibile! l’unica cosa che resta a Giobbe sono i suoi amici e nel momento più drammatico, al culmine della tragedia, gettano la maschera e si rivelano essere dei nemici.

E Giobbe? Egli si rivolge e parla sempre e solo a Dio, anche quando si indirizza agli amici, le sue parole sono dirette a Dio. La sua lite non mai con loro ma con Lui.

Al loro arrivo non possono parlargli perché vedono che il dolore continua a crescere. Persino loro devono fermarsi davanti all’intensità della sofferenza di Giobbe. Persino loro devono riconoscere che essa è autentica, impenetrabile, irreversibile. Ma quando lui comincia a parlare gli si rivoltano contro.

“Vivere è soffrire” si lamenta Giobbe. Vivere è aspettare la morte, pregustandola con gioia. Conclude il suo discorso d’esordio con queste parole: “perché ciò che temo mi accade e quel che mi spaventa mi raggiunge. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo; e viene il tormento!”. In altre parole, la storia di Giobbe non ha come motivo centrale la tristezza o la sofferenza, ma è una storia, potente, sulla paura e sull’angoscia.

Che cosa pretendevano? Che accettasse una serei di tragedie passivamente, docilmente, senza batter ciglio? Che restasse inebetito fino alla morte? E’ umana la reazione di Giobbe, per questo ci sentiamo più vicini a lui che ai suoi amici.

Il primo a parlare è Elifaz. Egli afferma che tutto ciò che è accaduto a Giobbe è dovuto ai suoi peccati. Egli afferma che le bontà di azioni e di costumi virtuosi in cui confida non comportano necessariamente che sia perfetto davanti a Dio al punto da non essere punito. “Ecco, dei Suoi servi non si fida, e nei Suoi angeli trova un difetto; tanto meno (si fida) degli abitanti di case di argilla, che sono fondate nella polvere” (Gb4, 18-19). Elifaz crede che tutto ciò che capita all’uomo sia dovuto al suo merito ma le nostre manchevolezze per le quali meritiamo la punizione, e il modo in cui meritiamo la punizione stessa, siano a noi nascoste.

Poi è il turno di Bildad. Egli crede nella ricompensa; il motivo di queste grandi disgrazie, se tu sei innocente e non hai peccato, è di rendere più grande la tua riconpensa, e quindi tu avrai la più bella delle ricompense. Tutto questo è per te un bene, finalizzato a rendere più grande il bene che riceverai alla fine. Dice egli a Giobbe: “ Se sei puro e retto, certo ora Egli veglierà su di te, e renderà perfetta la tua giustizia; il tuo principio sarà piccolo, a la tua fine sarà molto cresciuta” (Gb 8,6-7).

Poi è il turno di Zofar. Egli esprime l’opinione di chi ritiene che tutto sia conseguenza della sola volontà divina, che non si debba cercare alcuna causa per le azioni di Dio, e che non ci si debba chiedere perchè Egli ha fatto questo e perchè non ha fatto quest’altro. Pertanto non si deve cercare nè la giustizia né le esigenze della sapienza in tutto ciò che la Divinità fa, perchè la Sua grandezza e verità comportano che Egli faccia ciò che vuole, e noi non siamo in grado di arrivare alle segrete cose della Sua sapienza, che rende necessario che Egli faccia ciò che vuole, senza altra causa. E’ questo che egli dice a Giobbe: “Se Dio avesse parola, e aprisse le sue labbra con te, e ti parlasse dei segreti della (Sua) sapienza, che hanno duplice intendimento! Forse cerchi di trovare Dio? Vuoi trovare l’Onnipotente sino all’estremo?” (Gb 11, 5-7).

Eliu: egli è il più maligno di tutti: ripete le argomentazioni degli altri ma vi aggiunge un insolenza tutta sua. Arriva quando sente che Giobbe è già stato infiacchito dagli altri. Si espone solo quando sente di essere al sicuro. Dio non lo degna di una parola, lo ignora. Elihu è il personaggio più indegno della storia. Secondo alcune fonti Elihu è Satana stesso.

Qaual’è il comune denominatore dei quattro discorsi? I loro discorsi farebbero intendere che dobbiamo comprendere i meccanismi della vita senza un rapporto

ENTRA IN SCENA DIO

A un certo punto Giobbe si chiede se Dio non abbia commesso un errore, una svista. Forse il mio è un caso tragico seppure non insolito di scambio di identità. Per quanto possa sembrare strano, tra tutte le domande sollevate Giobbe, sono queste che ricevono risposta.

L’errore di Giobbe sembrerebbe essere stato non di aver posto delle domande, ma di aver osato formulare delle risposte. A partire dal suo caso individuale, Giobbe vuole costruire una sua teoria universale. Siccome lui soffre ingiustamente, allora tutta la sofferenza è ingiusta, il che significa che il mondo intero è ingiusto.

La riposta di Dio è potente e schiacciante: mette in discussione non le idee di Giobbe bensì la percezione su cui esse si fondano: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza.” (Gb 38,4)

Dio parla come un allievo che si rivolge al suo insegnante. Strano ruolo per Dio, no? Lo sceglie per un motivo: far confondere Giobbe che invece si aspettava che Dio parlasse com un giudicie.

Per accrescere il suo stupore Dio dirige la sua attenzione verso il più grande mistero di tutti, quello dell’ “opera del Principo”.

Così facendo, Dio offre a Giobbe e tramite lui a noi, una nuova comprensione del rapporto misterioso tra l’Uomo e Dio. La ricerca di Dio da parte dell’Uomo e la ricerca infinita dell’Uomo da parte di Dio. “Entrambi in esilio l’uno rispetto all’altro, l’uno dentro l’altro” afferma Elie Wiesel.

EPILOGO

Alla fine della storia Giobbe riemerge da vincitore o da perdente? E’ stato vittima dell’ingiustizia oppure di se stesso? Alla fine della storia ci chiediamo: chi ha vinto?

Ciò che sappiamo con certezza è chi ha perso: i tre amici. Dio stesso gliene dice quattro. “La mia ira si è accesa contro di te” dice Dio a Elifaz, e “contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe” (Gb 42,7). Dio non ama l’adulazione.

E i figli di Giobbe? Da vivi erano infelici; probabilmente soffrivano dei sospetti costanti del padre. Da morti vengono calunniati dagli amici del padre.

E di Giobbe che dire? Per lui l’epilogo è piuttosto ambiguo: vince perche i suoi avversari perdono? Oppure perde perche Dio vince? Qui la logica è sovvertita: la vittoria di Dio non significa sconfitta per l’uomo. Al contrario: illustra la partecipazione dell’uomo a quella vittoria.

Il lieto fine è troppo brusco. Troppo ovvio. Giobbe è nuovamente ricco, rispettato e soddisfatto. E “tutti i suoi fratelli e i suoi conoscenti di prima tornarono a spezzare il pane con lui e a consolarlo e a donargli soldi, gioielli e oro” (Gb 42,11) (ma dove erano quando Giobbe aveva bisogno? Quando torna ad essere ricco di colpo scopriamo parenti zii e nipoti…).

Improvvisamente ha sette figli e tre figlie che diversamente dalla prima covata hanno dei nomi e delle identità.

E la moglie? Riappare sulla scena, assieme al marito decidono di imbarcarsi in un nuovo inizio. Difficile? Forse, ma nulla è impossibile per chi ha oltrepassato la propria disperazione.

E’ questa la lezione del libro? Che agli esseri umani è dato di ripartire da capo? Di superare angosce e amarezze di riaffermare la fiducia a dispetto di ciò che minaccia l’esistenza?

Che la sua memoria e la sua anima siano coperte di cicatrici è evidente dall’espressione che ne descrive la sua morte: “Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.” (Gb 42,17). La stessa espressione la troviamo anche nella storia di Isacco: entrambi hanno avuto abbastanza. Entrambi hanno visto e sopportato troppo da parte dei propri avversari, entrambi sono troppo delicati per esprimere questo sentimento: finche sono in vita celebrano le virtù dell’esistenza. Quando giunge la morte vanno via senza troppi rimpianti.

Giobbe soffre e si ribella contro il suo dolore eppure non infligge sofferenza agli altri. Protesta ma non rinnega Dio, mai. Giobbe sà che non siamo come giocattoli nelle mani del giocattolai. Egli sà che l’Uomo è il cuore dell’universo, la sua umanità centro delle preoccupazioni delle occupazione divine. Ciascuno è unico, eccezionale, irripetibile: insostituibile.

Ma Giobbe impara che viveva in un mondo freddo e cinico, un mondo privo di veri amici. E’ un mondo siffatto in cui Dio cerca di raggiungere l’uomo nella sua solitudine. La storia di Giobbe? Una storia per denunciare le ipocrisie della vita.

Siamo portati a cercare ricompense per il nostro essere giusti e scrutiamo i malvagi nella speranza di non vederli prosperare. Cerchiamo di trovare il modo di traghettare da una realtà a volte dolorosa e spesso incomprensibile verso un’esistenza di ordine; in cui se siamo ‘bravi’ abbiamo la nostra ricompensa e i malvagi subiscono la giusta punizione. Ma la lezione di Giobbe dice altro, ci porta a riflettere sul rapporto misterioso tra l’Uomo e Dio, noi vorremmo un robot divino che garantisca ordine nelle nostre vite distribuendo ricompende e punizioni, Giobbe parla invece di un Dio vivente. La ricerca di Dio da parte dell’Uomo e la ricerca infinita dell’Uomo da parte di Dio. “Entrambi in esilio l’uno rispetto all’altro, l’uno dentro l’altro” dice Elie Wiesel. Il libro di Giobbe è un grande canto dell’Uomo con tutte le sue lacerazioni, le sue ansie e le sue speranze. Giobbe è uno di quei grandi miti sui quali di continuo l’uomo va ridisegnando la mappa delle proprie interrogazioni e verifica i contorni della propria fede e del rapporto con Dio.

[fonti: “La guida dei perplessi – Mosè Maimonide”, UTET 2005; Sei riflessioni sul Talmud – Elie Wiesel, Bompiani 2013]

Fonte : http://qarev.com#sthash.vMhKQfTN.dpuf – Grazie Dario